A Cop26 la ripartenza della diplomazia del clima
di MATTEO MASCIA, FONDAZIONE LANZA E ASVESS –
Abbiamo atteso qualche giorno prima di stendere queste note sulla conclusione della Cop26 a Glasgow e proporre una riflessione che provi a superare la dicotomia “successo o fallimento” su cui invece si sono prevalentemente soffermati l’informazione mainstreaming e il dibattito pubblico durante i giorni dei negoziati.
Abbiamo atteso qualche giorno prima di stendere queste note sulla conclusione della Cop26 a Glasgow e proporre una riflessione che provi a superare la dicotomia “successo o fallimento” su cui invece si sono prevalentemente soffermati l’informazione mainstreaming e il dibattito pubblico durante i giorni dei negoziati.
Le Cop sul clima, tra cui ovviamente Cop26, sono un processo negoziale, lungo ormai 26 anni, ad elevata complessità perché la posta in gioco è molto alta: cambiare rotta ed avviarsi nella direzione della decarbonizzazione dell’economia e della società attraverso una profonda trasformazione del sistema capitalistico industriale fondato sui combustibili fossili per la produzione e il consumo illimitato di beni e servizi.
Se la scienza pressoché all’unanimità afferma, attraverso i Rapporti dell’IPCC, la responsabilità delle attività umane sul clima e la grande accelerazione registrata negli ultimi 50 anni, non vi è ancora una adeguata consapevolezza etica e politica della gravità della crisi climatica da parte di molti capi di stato e di governo, così come di ampie fasce di opinione pubblica in Italia, Europa e ancora più nel mondo. Questa situazione rende molto più difficile, ma non impossibile, governare la transizione politica, economica e sociale verso una società a basse emissioni che sia nello stesso tempo più inclusiva e solidale. Questo perché l’azione per contrastare la crisi climatica può avere successo solo se è multilaterale, cioè se è il risultato di un’azione comune da parte di tutti, o almeno della maggioranza dei paesi (e al loro interno di istituzioni, attori economici, popolazioni e comunità locali) e se nello stesso tempo è orientata alla solidarietà internazionale e dunque al sostegno e all’aiuto di quanti hanno minori possibilità di agire sul versante della mitigazione e dell’adattamento al cambiamento climatico.
In questo quadro è del tutto evidente che le decisioni, o non decisioni, assunte sono influenzate dal prevalere degli interessi nazionali, dalle profonde differenze economiche, politiche, sociali dei paesi del mondo e dal contesto politico ed economico del momento. Era perciò difficile pensare ad una Cop di svolta nell’attuale scenario internazionale caratterizzato dalla drammatica crisi causata dalla pandemia, dalle tensioni economico-commerciali-militati tra alcuni grandi paesi in primis USA, Cina, Russia, India, dalla debolezza politica dell’Unione europea, condizionata da governi sovranisti e illiberali, e più in generale dalla delegittimazione subita dalle istituzioni multilaterali durante i 4 anni di presidenza Trump.
Lette in questa prospettiva le conclusioni della Cop26 rappresentano un piccolo, anche se insufficiente, avanzamento del percorso negoziale per l’attuazione dell’Accordo di Parigi del 2015. Nel Glasgow Climate Pact si ribadisce, recependo l’indicazione della comunità scientifica, la necessità di mantenere l’aumento della temperatura media globale entro 1.5°C rispetto al periodo preindustriale con l’obiettivo di ridurre del 45% le emissioni di gas ad effetto serra entro il 2030. Per la prima volta, inoltre, viene riconosciuto in modo esplicito la necessità di ridurre l’uso dei combustibili fossili e del carbone in particolare, ma la bozza di documento finale parlava di fuoriuscita dal carbone, espressione che è stata cambiata nel corso della sessione conclusiva per l’opposizione dell’India.
Vi è poi l’impegno ad alzare l’ambizione delle quote nazionali di riduzione delle emissioni (Nationally Determined Contributions – NCD), la definizione di alcune importanti regole per rendere trasparente le modalità di presentazione dei report nazionali e l’adozione di orizzonti temporali comuni di presentazione dei NCD a partire dal 2025. Tutte queste misure consentiranno un’azione di monitoraggio, confronto e controllo accurato e comparabile degli impegni nazionali. Un altro elemento di avanzamento riguarda le regole per la creazione di mercati di carbonio attraverso i meccanismi di scambio di crediti di emissioni volti a sostenere e favorire la cooperazione tra Stati per raggiungere gli obiettivi fissati nei rispettivi NCD. Regole che per la prima volta includono alcune clausole di attenzione al rispetto dei diritti umani e alla tutela degli ecosistemi, certo in considerazione della complessità dell’attuazione di questi mercati sarà necessario un attento monitoraggio da parte del Segretariato internazionale e della stessa società civile.
In positivo si può ancora richiamare il raddoppio delle risorse per il Fondo per l’adattamento a sostegno dei paesi poveri e alcuni accordi tra gruppi di paesi su temi specifici. Tra questi: ridurre le emissioni di metano del 30% al 2030 rispetto al 2020 sottoscritto da 100 paesi, fermare la deforestazione entro il 2030 firmato da 110 Stati; cancellare i sussidi dannosi per l’ambiente entro il 2023 che vede tra i firmatari anche l’Italia, insieme all’Unione europea, agli Usa, altri paesi e istituti finanziari.
Gli impegni assunti a Glasgow non consentono ancora di raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi ma, per quanto piccoli, segnano la ripartenza della diplomazia del clima e un passo in avanti nel difficile e complesso processo negoziale. Per rafforzare questi impegni è ora necessario continuare la pressione della società civile nelle sue diverse articolazioni (movimenti e associazioni, comunità scientifica, poteri locali, organizzazioni economiche e sindacali, chiese) nei confronti degli stati per rafforzare la cooperazione multilaterale e mantenere alta l’attenzione e l’ambizione affinché fin dalla prossima tappa, fra un anno in Egitto, vi siano le condizioni per l’assunzione di scelte più forti e coraggiose per contrastare la crisi climatica.
Matteo Mascia, Fondazione Lanza e AsVess