Guai se cambia!
di PAOLO GURISATTI, ASVESS –
“Guai se cambia!” è l’aforisma preferito dai piccoli imprenditori veneti che, grazie al modello dell’industrializzazione diffusa, hanno assaporato quasi mezzo secolo di costante sviluppo economico e personale. Da quando è andato in crisi il modello dei prodotti di massa standardizzati, alla fine degli anni ’70, e si è aperta una finestra di opportunità, per le produzioni personalizzate, che i piccoli imprenditori, protagonisti di quel modello, hanno saputo utilizzare a proprio favore.
Da qualche tempo, però, stanno affiorando segnali di frattura, che indeboliscono la forza dell’aforisma, e inducono un’associazione come ASVESS, attenta al tema della sostenibilità economica, sociale e ambientale del Veneto, a riflettere sulle discontinuità del modello.
Di seguito ne elenchiamo alcune che, a nostro avviso, sono importanti.
La prima e più rilevante, a nostro giudizio, è il cambiamento nella composizione delle forze di lavoro (grafico 1). Fino alla fine del secolo scorso, la maggioranza degli occupati era inserita nel settore industriale, mentre i servizi non commerciali rappresentavano una quota marginale dell’occupazione totale. Nel giro di vent’anni proprio questi servizi sono diventati il settore trainante dell’occupazione. Attenzione! Non stiamo dicendo che siano diventati un motore economico sostitutivo, per lo sviluppo regionale, dell’industria manifatturiera o dell’agricoltura specializzata (come quella del vino e delle Colline di Valdobbiadene).
In parallelo alla crescita dell’occupazione, questi servizi hanno portato con sé un calo tendenziale del reddito pro-capite (grafico 2) e questo significa che i nuovi posti di lavoro, da essi creati, non mantengono più la promessa di un elevato valore aggiunto e di crescenti livelli di remunerazione del lavoro e del capitale.
Qualcosa sta cambiando nella struttura economica del territorio regionale e non è, per il momento, positivo. L’industria mantiene un ruolo centrale, grazie agli investimenti tecnologici e alla forte propensione all’export. Tuttavia, crea sempre meno occasioni di lavoro e stenta a trovare giovani disponibili. I servizi emergenti, al contrario, creano nuovi posti di lavoro, ma non reddito e processi di accumulazione paragonabili a quelli del settore industriale.
Il secondo segnale di frattura è quello urbanistico. Fino a pochi anni fa, lo sviluppo toccava tutti i campanili, in modo pressoché analogo. Le zone industriali e artigianali, prima, e quelle commerciali, poi, si sono diffuse su tutto il territorio. Da vent’anni a questa parte si assiste a una relativa concentrazione delle attività in due poli urbanistici che assumono funzioni complementari: l’area dei capoluoghi, allineati lungo l’asse autostradale e ferroviario, e l’area pedemontana.
Nel primo polo si concentrano le attività di servizio e si svuotano le zone industriali (si vedano a questo proposito gli studi della Fondazione Palazzo Festari del 2016). Nel secondo resistono le attività manifatturiere, ma crescono servizi specializzati e funzioni di integrazione est-ovest sconosciute nel secolo scorso, dominato dalla logica delle province e dell’integrazione nord-sud.
Per rendere meglio l’idea di quali trasformazioni implichi questa tendenza alla polarizzazione tra aree “metropolitane” complementari, citiamo alcuni esempi tratti dalla cronaca recente.
A Padova, con la ripresa dei corsi universitari in presenza, dopo il Covid, è diventato impossibile trovare appartamenti e servizi per gli studenti e i docenti fuori sede. La ZIP non solo tende a svuotarsi delle attività industriali tradizionali, ma si rivela totalmente inadatta a ospitare uffici e spazi utili per i servizi.
Nell’area pedemontana, mancano strutture di formazione ITS (Istituti Tecnici Superiori – Academy) e servizi adeguati a un sistema manifatturiero 4.0, che vuole mantenersi attrattivo per le giovani generazioni, ma si trova confinato in un quartiere privo di connessioni, sistemi di mobilità e condizioni di residenza coerenti con le aspettative dei giovani. Grazie alla Superstrada Pedemontana e a investimenti mirati sulle “terre alte” e i sistemi collinari, quest’area cerca di tornare attrattiva, ma deve reinventare la propria identità, oltre le province.
Qual è il problema? Che senza una pianificazione urbanistica integrata dell’intero territorio regionale, in chiave metropolitana (secondo uno schema federativo analogo a quello che ha dato vita a città come Londra), la soluzione dei problemi indotti dalla specializzazione tra diversi territori, “quartieri metropolitani” emergenti e singoli comuni, diventa più difficile.
Non dobbiamo dimenticare che il modello di sviluppo diffuso ha generato un consumo di suolo e un congestionamento delle vie di comunicazione che risulta, a lungo andare, insostenibile. La necessità di introdurre una visione innovativa e una pianificazione “metropolitana” dello spazio regionale, va dunque in netta controtendenza con l’aforismo del “guai se cambia!”. La programmazione 2021-27 e il PRRR (Piano Regionale di Rinascita e Resilienza) deve assumere connotati assai diversi da quella passata.
A questi elementi frattura se ne aggiungono altri che i gruppi di lavoro di ASVESS hanno affrontato negli ultimi anni. Ad esempio, la questione del lavoro dignitoso e delle politiche migratorie, o della formazione terziaria (Goal 8 dell’Agenda 2030 dell’ONU), e quella dell’economia circolare e dell’innovazione in campo ambientale (Goal 12).
Queste considerazioni ci portano a concludere che, nonostante gli aforismi e i luoghi comuni più “continuisti”, il sistema territoriale sta già cambiando, rapidamente, e sollecita l’adozione di un paradigma di governance più efficace. Un paradigma che la Strategia Regionale per la Sostenibilità ha appena abbozzato e richiede adesso un investimento più generoso, convinto e partecipato.
Paolo Gurisatti
Grafico 1 – Quota di occupazione nei tre settori dell’economia veneta: industria, commercio e servizi (composizione %)
Fonte: ISTAT
Grafico 2 – Andamento del PIL Pro-Capite in Veneto
Fonte: ISTAT